06 dicembre 2017
29 ottobre 2017
UNA PUTTANA (quarta parte)
Ogni giorno uguale all'altro. Si fa per dire. Il ritmo era scandito da un susseguirsi di incontri con uomini sconosciuti, che mi pagavano per soddisfare bisogni, voglie, solitudini, vizi. E illusioni. Innumerevoli illusioni, che io vendevo in confezione regalo.
Imparai presto ad essere puttana. Perché usare eufemismi o termini edulcorati per definirmi? Per definire una ragazza in difficoltà, che affitta (e non vende, come erroneamente si crede) il proprio corpo.
Quel termine era per me una sana autopunizione, e un malato orgoglio. Mi sentivo forte nei confronti di chi doveva pagare per avermi (solitamente non più di venti minuti); vittoriosa verso le mogli, fidanzate o compagne, che avevano stancato gli uomini che io invece soddisfacevo.
Bisogna pur trovare i lati positivi di una galera.
Emma non esisteva più. Una creatura assai diversa aveva preso il suo posto.
Nacque Eva.
Mentre Emma era venuta alla luce in un nido caldo ed ospitale, cresciuta al sicuro, sostenuta ed amata tanto... tanto; Eva era nata all'improvviso, in un piccolo salotto rosso, su un lettino per massaggi rivestito di carta, contornata e consigliata da donne esperte, non amata.
Emma era semplice, noncurante dei consigli sulla bellezza che le dispensavano le sue coetanee, affascinate dalla moda e dai ragazzi; Eva coltivava il suo fisico, dedicandosi al suo aspetto esteriore con cura quasi maniacale.
Emma aveva sacrificato la sua giovane vita sui tasti di un pianoforte; Eva si sacrificava solo quattro ore al giorno.
L'una aveva costruito, l'altra demoliva. Piano piano...
Uscivo spesso la sera; molte volte con le colleghe. Nasce una sorta di cameratismo tra le prostitute. Uno strano legame di solidarietà-invidia, odio-amore. Difficile da spiegare. (continua)
Daniela Lucia Monteforte
versione ridotta per blog
tutti i diritti riservati
Daniela Lucia Monteforte
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10 luglio 2017
21 aprile 2017
L'ARTISTA (parte terza)
Nel salire la scalinata del palazzo, la voce del medico rimbombava nel vuoto della mente; risuonava insieme alla mia, poiché sapevo. Sì, sapevo ancor prima. Sfilavano davanti a me le immagini dell'estenuante trafila di analisi, accertamenti, visite, diagnosi... fino al verdetto finale; quello che però può sempre avere un appello: la ricerca ha fatto passi da gigante, la terapia è ora meno invasiva, l'esito è spesso favorevole. Spesso. "Spesso" non mi basta.
Gradino dopo gradino salivo, come giorno dopo giorno avrei dovuto dare sempre più spazio nella mia vita all' alieno che si nascondeva in me. Era il mio turno.
Gli occhi di Marcello mi avevano sorriso quando mi aveva salutato, finita la sua visita. Uno scintillio rivolto a me come un buon augurio. Eppure uscì dall'ambulatorio impercettibilmente più curvo e cupo.
Perché pensavo allo sguardo di un uomo che appena conoscevo? Io stavo male.
Dovrò piegarmi alla sofferenza. Sola. E disperata, forse. O forse no... forse starò bene, grazie ad un errore di diagnosi dell'ultimo momento...
Dovrò piegarmi alla sofferenza. Sola. E disperata, forse. O forse no... forse starò bene, grazie ad un errore di diagnosi dell'ultimo momento...
Mi ha dato il suo numero telefonico. Mi ha detto che avrei potuto chiamarlo l'indomani. Ma io avrei voluto chiamarlo in quel momento.
"Maestro, ho paura!", avrei detto d'impulso.
Lui, e non mio fratello. Perché, in me, era esploso il desiderio di dirlo a lui? Non so. Le ragioni di un'anima stanca sono lontane come le stelle; incomprensibili come l'amore.
Chiusi la pesante porta alle mie spalle... Tutto produceva una strana eco quella sera. Mi parve di chiudermi fuori, ed invece ero in casa...
Bevvi una tisana. Mi spogliai. Cercai di mettere ordine nei cassetti senza un reale motivo. Guardai me che tentavo di riordinare; le mie mani arrossate per lo sbalzo di temperatura; le mie braccia che non volevano fermarsi.
Come un temporale non annunziato, mi abbandonai ad un pianto straziante, quasi un urlo soffocato, quando fui sotto la doccia. E scivolai... scivolai in ginocchio, con la testa tra le mani. Nella posizione del condannato, che non ha la forza di pregare il suo carnefice... Chiusa in me. Chiusa al mondo.
Due pasticche quella sera, ed un bicchiere di vino rosso. Una sigaretta. Il letto. Dormii con la luce accesa.
Sognai ombre senza senso, liquide e nere. Brillava solo l'orologino d'oro della signora Conti, che andava all'indietro. E poi la sua bocca sottile, che mi parlava muta. I suoi piccoli occhi bui, che si trasformavano in note su uno spartito: il Requiem di Mozart.
"Amanda, prenditi cura di te", la voce di Marcello. Dov'era? Non vedevo nulla. Solo una lieve carezza sul mio volto. (continua)
Daniela Lucia Monteforte
tutti i diritti riservati
(versione per web)
Lui, e non mio fratello. Perché, in me, era esploso il desiderio di dirlo a lui? Non so. Le ragioni di un'anima stanca sono lontane come le stelle; incomprensibili come l'amore.
Chiusi la pesante porta alle mie spalle... Tutto produceva una strana eco quella sera. Mi parve di chiudermi fuori, ed invece ero in casa...
Bevvi una tisana. Mi spogliai. Cercai di mettere ordine nei cassetti senza un reale motivo. Guardai me che tentavo di riordinare; le mie mani arrossate per lo sbalzo di temperatura; le mie braccia che non volevano fermarsi.
Come un temporale non annunziato, mi abbandonai ad un pianto straziante, quasi un urlo soffocato, quando fui sotto la doccia. E scivolai... scivolai in ginocchio, con la testa tra le mani. Nella posizione del condannato, che non ha la forza di pregare il suo carnefice... Chiusa in me. Chiusa al mondo.
Due pasticche quella sera, ed un bicchiere di vino rosso. Una sigaretta. Il letto. Dormii con la luce accesa.
Sognai ombre senza senso, liquide e nere. Brillava solo l'orologino d'oro della signora Conti, che andava all'indietro. E poi la sua bocca sottile, che mi parlava muta. I suoi piccoli occhi bui, che si trasformavano in note su uno spartito: il Requiem di Mozart.
"Amanda, prenditi cura di te", la voce di Marcello. Dov'era? Non vedevo nulla. Solo una lieve carezza sul mio volto. (continua)
Daniela Lucia Monteforte
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20 marzo 2017
L'ARTISTA (parte seconda)
Mi venne il sospetto di essere folle. Non potevo essere così sconsiderata da sottovalutare il mio stato di salute, solo per aver ritrovato un amico; più conoscente che amico a dire il vero.
Lo incontrai ad un suo concerto anni prima, ed amai subito il tocco delle sue dita sul pianoforte.
Volli recarmi nel suo camerino per onorare la sua arte sublime. Riuscii solo a pronunciare un complimento banale offerto con un sorrisetto stupido, tanta era la mia emozione. Lui fu gentilissimo. Cortese e semplice. Diverso dagli inarrivabili baroni della musica, barricati nella loro superbia. Lui mi sorrise, mi chiese di me. Gli parlai del mio amore per Mozart, Bach, Beethoven. Già, mi fece parlare... che strano. Avrebbe dovuto congedarmi in fretta, magari autografandomi il libretto di sala, per liberarsi di me. Tanto più che fuori dalla porta c'era una donna mora, che aveva tutta l'aria di essere sua moglie.
Ebbi inoltre la netta impressione che il maestro si trovasse a suo agio parlando con me. A posteriori capii che per lui una chiacchierata non impegnativa rappresentava un momento di sana evasione dai suoi pressanti impegni. Eppure i suoi occhi dicevano anche altro.
Gli ero simpatica, lo sentivo. E malgrado la sua bruna compagna guardasse insistentemente l'orologino d'oro al polso, Marcello si curava di ascoltare le insignificanti risposte che gli davo.
Non mi ero mai sentita a mio agio come allora; avvolta da una nube di benessere mentale e fisico, come se parlassi al mio angelo custode...
"Marco! E' tardi. Dobbiamo andare"
Come uno spillo che fa scoppiare una bolla di sapone, l'incanto finì al suono della frase asciutta e sicura della signora. Era evidente che il comando era il suo forte. Ed era altrettanto evidente che Marcello (gli aveva cambiato anche il nome!), era abituato a quel tono piuttosto militaresco, cui rispondeva pazientemente. Anche questa calma mi colpì; i pianisti che avevo conosciuto erano tutti nevrotici.
Sentendomi oltremodo imbarazzata, gli tesi la mano, che lui vigorosamente strinse.
Uscii dal camerino mentre lei vi entrava con passo svelto. Fu un attimo. Mentre le passai vicino notai gli occhi e la bocca.
Capii molte cose.
(continua)
Daniela Lucia Monteforte
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Lo incontrai ad un suo concerto anni prima, ed amai subito il tocco delle sue dita sul pianoforte.
Volli recarmi nel suo camerino per onorare la sua arte sublime. Riuscii solo a pronunciare un complimento banale offerto con un sorrisetto stupido, tanta era la mia emozione. Lui fu gentilissimo. Cortese e semplice. Diverso dagli inarrivabili baroni della musica, barricati nella loro superbia. Lui mi sorrise, mi chiese di me. Gli parlai del mio amore per Mozart, Bach, Beethoven. Già, mi fece parlare... che strano. Avrebbe dovuto congedarmi in fretta, magari autografandomi il libretto di sala, per liberarsi di me. Tanto più che fuori dalla porta c'era una donna mora, che aveva tutta l'aria di essere sua moglie.
Ebbi inoltre la netta impressione che il maestro si trovasse a suo agio parlando con me. A posteriori capii che per lui una chiacchierata non impegnativa rappresentava un momento di sana evasione dai suoi pressanti impegni. Eppure i suoi occhi dicevano anche altro.
Gli ero simpatica, lo sentivo. E malgrado la sua bruna compagna guardasse insistentemente l'orologino d'oro al polso, Marcello si curava di ascoltare le insignificanti risposte che gli davo.
Non mi ero mai sentita a mio agio come allora; avvolta da una nube di benessere mentale e fisico, come se parlassi al mio angelo custode...
"Marco! E' tardi. Dobbiamo andare"
Come uno spillo che fa scoppiare una bolla di sapone, l'incanto finì al suono della frase asciutta e sicura della signora. Era evidente che il comando era il suo forte. Ed era altrettanto evidente che Marcello (gli aveva cambiato anche il nome!), era abituato a quel tono piuttosto militaresco, cui rispondeva pazientemente. Anche questa calma mi colpì; i pianisti che avevo conosciuto erano tutti nevrotici.
Sentendomi oltremodo imbarazzata, gli tesi la mano, che lui vigorosamente strinse.
Uscii dal camerino mentre lei vi entrava con passo svelto. Fu un attimo. Mentre le passai vicino notai gli occhi e la bocca.
Capii molte cose.
(continua)
Daniela Lucia Monteforte
tutti i diritti riservati
08 marzo 2017
L'ARTISTA
Avevo paura dei virus e dei batteri sin da piccola; non mi piaceva la vicinanza del pubblico nei locali chiusi. Mi misi in un angolo ad aspettare il mio turno. Avrei fatto notte a quel ritmo.
Come era mia abitudine, mi misi ad osservare gli astanti.
Quasi tutti erano pensionati; tranne una giovane mamma visibilmente stressata, che cercava di tranquillizzare i suoi due bambini imbronciati e contrariati; una ragazza sfavillante di fresca chirurgia plastica; un signore elegante e distinto, che leggeva un libro. Pochi seduti, molti in piedi, inclusa me.
I più ciarlieri erano gli anziani; ed era mia convinzione che spesso andassero dal medico anche per avere un interlocutore con cui lamentarsi del governo e degli acciacchi.
Il ritmo di entrata dei pazienti era paurosamente lento. Eppure conoscevo bene i tempi veloci di visita che caratterizzavano il mio medico. Lo avevano scelto i miei quand'ero ragazzina, e più per pigrizia mentale che altro, lo tenni come medico anche per me, quando andai a vivere da sola.
Finalmente si liberò un posto a sedere. Mi accomodai vicino al signore assorto nella sua lettura. Cercai una rivista, ma rimasi disgustata alla vista di pagine stracciate e unte da chissà quali mani infette. Notai che invece il libro del distinto signore era in perfetto stato. "Bravo - pensai - l'hai portato da casa".
Probabilmente quel pensiero mi fece sorridere, perché l'uomo in questione mi sorrise a sua volta alzando gli occhi dalle pagine. Ora che lo vedevo meglio, mi pareva di conoscerlo. Non ebbi tempo di pensarci troppo perché egli mi prevenne.
"Buonasera", mi guardò senza lo stupore dello sconosciuto.
"Buonasera", risposi.
"Come va ?"
La domanda lasciava intendere che egli mi conoscesse veramente. E mentre rispondevo che andava tutto bene, nonostante mi trovassi in uno studio medico, feci una veloce rassegna mentale delle mie conoscenze. Ma certo. Ecco chi era.
"Se non ricorda il mio nome, mi presento nuovamente - disse tendendomi la mano - Marcello Conti"
"Sì, lo so. Mi ricordo bene".
E sorrisi.
(continua)
Daniela Lucia Monteforte
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16 febbraio 2017
05 gennaio 2017
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