29 ottobre 2017

UNA PUTTANA (quarta parte)

Ogni giorno uguale all'altro. Si fa per dire. Il ritmo era scandito da un susseguirsi di incontri con uomini sconosciuti, che mi pagavano per soddisfare bisogni, voglie, solitudini, vizi. E illusioni. Innumerevoli illusioni, che io vendevo in confezione regalo.
  Imparai presto ad essere puttana. Perché usare eufemismi o termini edulcorati per definirmi? Per definire una ragazza in difficoltà, che affitta (e non vende, come erroneamente si crede) il proprio corpo. 
  Quel termine era per me una sana autopunizione, e un malato orgoglio. Mi sentivo forte nei confronti di chi doveva pagare per avermi (solitamente non più di venti minuti); vittoriosa verso le mogli, fidanzate o compagne, che avevano stancato gli uomini che io invece  soddisfacevo.
Bisogna pur trovare i lati positivi di una galera.

Emma non esisteva più. Una creatura assai diversa aveva preso il suo posto.
Nacque Eva.
   Mentre Emma era venuta alla luce in un nido caldo ed ospitale, cresciuta al sicuro, sostenuta ed amata tanto... tanto; Eva era nata all'improvviso, in un piccolo salotto rosso, su un lettino per massaggi rivestito di carta, contornata e consigliata da donne esperte, non amata.
Emma era semplice, noncurante dei consigli sulla bellezza che le dispensavano le sue coetanee, affascinate dalla moda e dai ragazzi; Eva coltivava il suo fisico, dedicandosi al suo aspetto esteriore con cura quasi maniacale.
   Emma aveva sacrificato la sua giovane vita sui tasti di un pianoforte; Eva si sacrificava solo quattro ore al giorno.
   L'una aveva costruito, l'altra demoliva. Piano piano...
Uscivo spesso la sera; molte volte con le colleghe. Nasce una sorta di cameratismo tra le prostitute. Uno strano legame di solidarietà-invidia, odio-amore. Difficile da spiegare. (continua)

Daniela Lucia Monteforte


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